Sirio Giannini

Il 26 gennaio del 1960, in seguito a un intervento chirurgico, moriva a Firenze Sirio Giannini. Il suo nome, oggi, è conosciuto solo da pochi, ma allora si trattava di uno degli scrittori giovani - Giannini era nato a Corvaia (fraz. di Seravezza, Lucca) il 28 marzo del 1925 - più apprezzati dalla società letteraria del nostro paese.

Nel 1953, nella collana Mondadori "La Medusa", erano stati editi i racconti di Prati di Fieno, che avevano interessato un critico di vaglia come Pietro Pancrazi e ottenuto il Premio Firenze nel 1956. Nel 1958, ancora ne "La Medusa", Mondadori aveva pubblicato La Valle Bianca: precisamente un anno prima questo romanzo aveva ricevuto il Premio Hemingway, nella cui giuria erano personalità quali Dino Buzzati, Remo Cantoni, Giacomo Debenedetti, Alberto Mondadori, Eugenio Montale, Fernanda Pivano ed Elio Vittorini.

Intanto, i racconti di Giannini apparivano periodicamente in un settimanale prestigioso come "Il Mondo" di Mario Pannunzio; mentre la stima di Cesare Zavattini ne accompagnava anche l'attività di soggettista e sceneggiatore per il cinema. Il documentario I Cavatori (Premio Montecatini 1961), di cui Giannini fu regista, ne mette in rilievo l'occhio pieno di umana sympatheia per quanti lavoravano nel mondo apuano delle cave di marmo, sperimentandovi dure, se non spietate, condizioni di vita; e riesce a emozionare nella sua lineare limpidezza. Ciò che colpisce è la capacità di Giannini di condividere con i protagonisti del suo cinema e della sua narrativa prima di tutto il quotidiano, le cose, i fatti semplici che si vivono ogni giorno. A Giannini interessava infatti non la cronaca in sé, quanto la possibilità di rappresentare i personaggi in momenti veri o in una dimensione autentica dell'esistenza. Al giovane autore seravezzino - che pure era politicamente impegnato (in qualità di amministratore locale) - erano infatti estranee le sovrastrutture ideologiche e la sua scrittura o il suo cinema non scaturivano, pertanto, da un mero bisogno di denuncia sociale giustificato magari in chiave moralistica. Più che le distinzioni tra "sfruttati" e "sfruttatori" o certa retorica da comizio, Giannini tendeva a proporre un realismo dolente, in grado di restituire la vita in tutta la sua opacità e irrevocabile asprezza.

I fatti raccontati da Giannini non sono così mai eccezionali, come insegnava del resto il Neorealismo; ma il suo punto di vista non si limita a descrivere l'apparenza delle cose, non si arrocca su quello dei personaggi: il narratore è onnisciente e, sia pure con grande sobrietà, sa affondare nei loro pensieri, ne chiarisce le emozioni più segrete. Giannini riesce a usare la scrittura mettendo a frutto - in analogia - quanto il nostro miglior cinema andava realizzando: i suoi personaggi sono allora spesso in primo piano, al centro della scena, seguiti come in un piano-sequenza di un podere e della campagna circostante, indicata per rapidissime e sfumate sequenze panoramiche, potremmo dire; il tempo e i tempi sono dosati con sapienti ellissi. Si tratta di quelli delle stagioni rappresentate, e sintetizzate per "inquadrature", da alcuni esemplari momenti del lavoro e dell'esistenza contadina: la semina, il raccolto, la vita fra casa e stalla durante l'inverno. I rallentamenti o le sospensioni, che alcune descrizioni particolarmente minuziosa, indugiate, comportano, hanno una funzione di scavo interiore, a sottolineare la fatica etica, le risorse di energia spirituale implicate da alcune scomode scelte morali dei personaggi.

Grande lettore di riviste quali "Cinema" e "Cinema Nuovo", animatore instancabile di cineforum, Giannini aveva dunque saputo far tesoro della lezione dei maestri della cinematografia neorealista del suo tempo: da De Sica a Rossellini, da Visconti all'amico Zavattini. Ne aveva tratto l'asciuttezza dello sguardo, ma anche la capacità di farsi testimone partecipe e sensibile della realtà che si può conoscere, la sola che sentiamo davvero e che induce a non barare nel momento della scrittura. Pertanto, quando leggiamo Prati di fieno o altri racconti e romanzi di Giannini (Dove nasce il fiume fu pubblicato postumo solo nel 1978 a Bologna, presso l'editore Massimiliano Boni) - pur notandone ingenuità formali, schematismi o qualche tentazione bozzettistica -, siamo catturati da un sentimento di vitale tenerezza per la passione di verità dell'autore: la stessa che dovette probabilmente colpire i lettori e i critici della decade 1950-1960. In Prati di fieno non troviamo, giova ripeterlo, preoccupazioni di tipo ideologico o comunque socio-politico, ma figure di uomini come Andrea, il gobbo Ugo e il giovanissimo Giorgio che, prima di essere contadini e operai, sono esseri umani "interi", impegnati da un punto di vista morale e fermi nell'affrontare una vita segnata dal lavoro più ingrato, dalla solitudine, dalla pena, ma anche dalla solidarietà che solleva un po' dal giogo dei patimenti ed è aiuto fondamentale nella lotta per la sopravvivenza.

Poiché Giannini mira sempre a far emergere le schiette verità esistenziali del mondo contadino o operaio che ritrae, Prati di fieno può apparire quasi una specie di favola o apologo, in cui toni elegiaci si mescolano a una straordinaria cura dei particolari, la misura dello stile e della lingua - venata qua e là da qualche voce lucchese o versiliese - a quell'intonazione placida, che aderisce perfettamente all'umanesimo delle sue figure: sempre in sintonia con la propria coscienza e perciò pronte ad affrontare le conseguenze delle proprie decisioni, anche le più scomode.

Bibliografia

· Prati di fieno - Mondadori, 1953;

· La Valle bianca - Mondadori, 1958 e M. Boni, 1981, edizione tedesca: Das Weisse Tal, Düsseldorf ,Progress Verlag,1959;

· I racconti - Biblioteca Comunale, Seravezza, 1971;

· Dove nasce il fiume – M. Boni, 1978 e Vallecchi, 1993.

Incompiuti e inediti i romanzi: Il Feudo (1954), Passo del Sella (1954), L’ultimo inverno (s.d.) e Bichini rosso (1959).

· I Cavatori – cortometraggio cinematografico, 1959;

Daniela Marcheschi